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Kazakistan e Bitcoin: che rapporto c’è tra la crisi del Paese e le criptovalute

Le aziende che trattano criptovalute hanno fatto schizzare il consumo di energia

Kazakistan e Bitcoin: quale legame può esserci? Qual è il rapporto tra il Paese dell’Asia centrale recentemente teatro delle rivolte popolari contro la crisi economico-finanziaria, e la criptovaluta che tanto negli ultimi tempi sta facendo parlare di sé?

Il rapporto c’è, e anche stretto, e ve lo avevamo in qualche modo preannunciato in un articolo dello scorso 1 dicembre.

Il nocciolo della questione sta nel cosiddetto mining delle criptovalute. In Kazakistan le aziende che trattano Bitcoin si sono infatti moltiplicate esponenzialmente negli ultimi tempi. E ciò ha significato un ingente consumo di energia. Da lì sarebbe scaturita la crisi che ha messo in ginocchio il Paese.

Ma allora come mai in queste ore i giornali parlano di un rapporto causa-effetto invertito? Più che spiegare perché i Bitcoin hanno provocato la crisi in Kazakistan, illustrano come sia la crisi kazaka ad aver prodotto il crollo del valore dei Bitcoin.

Cerchiamo di fare chiarezza, riordinando cronologicamente la complessa questione.

Kazakistan e Bitcoin: la migrazione delle aziende

Il primo capitolo della vicenda si è svolto in estate. Quando il governo della Cina ha imposto una stretta su chi opera in criptovalute. In Cina si trovava infatti circa il 65% dei minatori di criptomonete. Ma Pechino considera Bitcoin e affini come beni ancora poco regolamentati, dunque spesso adoperati nel mercato nero, per il riciclaggio di denaro, nel gioco d’azzardo. E addirittura nel contrabbando di armi e nel traffico di droga.

Viste le difficoltà riscontrate in Cina, i miners hanno dunque deciso di spostarsi in massa. E dove sono emigrati? Beh: in gran parte nel vicino Kazakhstan, che ha moltiplicato di sei volte il proprio livello di hashrate nella produzione di Bitcoin, dall’1,4 all’8,2%, diventando così il terzo Paese a livello globale.

Ricordiamo che l’hashrate è, in sintesi, l’unità di misura che indica la potenza di elaborazione della rete Bitcoin. I miners per estrarre Bitcoin utilizzano un hardware con una certa potenza e velocità di calcolo. Maggiori sono potenza e velocità, minore sarà il tempo che serve al miner per inviare il codice corretto ed estrarre Bitcoin. Perché ogni estrazione passa appunto attraverso complessi calcoli.

Si immagini quindi quale potrebbe essere il consumo di un vastissimo capannone. Che ospita non solo centinaia di computer in grado di elaborare rapidamente complessi algoritmi, ma altrettanti ventilatori che devono raffreddare le macchine.

L’International Energy Agency ha calcolato che queste operazioni, a livello globale, producono 36 milioni di tonnellate di C02, dal momento che molte reti sono alimentate da centrali a carbone o a gas.

Bitcoin Kazakistan
Kazakistan: capannoni per il mining di criptovalute

Perché il Kazakistan

Ma perché il grosso delle aziende che operano in criptovalute si è trasferita in Kazakistan? Perché, come ha spiegato Bloomberg, il costo dell’elettricità nel Paese dell’Asia centrale è particolarmente basso.

Ed ecco quindi una migrazione ingente di aziende del settore. Secondo il Financial Times, nel corso di tutto il 2021 sono approdate nella repubblica ex sovietica addirittura 88.000 società.

Il rincaro dell’energia

Un così massiccio spostamento di aziende di mining ha inevitabilmente provocato un consumo di energie extra. Per dare un’idea, le attività di tutte le società al mondo che operano in criptovalute sviluppa un consumo complessivo pari a quello della Polonia o dell’Argentina.

Ebbene: il consumo di energie straordinario ha fatto crescere la domanda di oltre l’8%. Ecco così che la rete di distribuzione del Paese è andata in tilt. E si sono rese necessarie diverse interruzioni.

Il governo è inoltre intervenuto tassando le aziende che estraggono criptovalute. Ma la misura non è bastata: l’insolita domanda di energie ha fatto lievitare i prezzi degli idrocarburi. Il GPL è raddoppiato, e nel frattempo la valuta locale è crollata.

La crisi economica ha dato vita a disordini scoppiati nei primi giorni dell’anno in diverse città del Paese.

Dal Bitcoin al Kazakistan. E ritorno

Finora, dunque, abbiamo visto come la superproduzione di Bitcoin in Kazakistan abbia causato la crisi in atto.

Ma c’è un versante opposto della questione, che vale la pena di considerare. A causa della crisi sempre più acuta, il governo del Paese asiatico ha deciso di interrompere i collegamenti Internet, per impedire ai manifestanti sia di organizzare le rivolte che di diffondere immagini e video delle proteste.

Tuttavia, questa interruzione ha ovviamente avuto ripercussioni profonde sulle società di mining di criptovalute. E ora il Bitcoin ha perso l’8% del suo valore, arrivando a quota 36mila dollari. Non capitava dal settembre dello scorso anno.

Le concause della crisi kazaka

Il Kazakistan non è in ginocchio solo a causa dei Bitcoin.

Occorre ricordare che la crisi ha anche ragioni sociali e politiche. La figura presa di mira dai rivoltosi è l’ex presidente Nursultan Nazarbayev, che aveva creato un regime autoritario. Nazarbayev, al potere dal 1990, si è dimesso nel 2019 a favore di Kassym-Jomart Tokayev, ma ha mantenuto un ruolo direttivo nel consiglio di sicurezza nazionale.

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Claudio Bagnasco

Claudio Bagnasco è nato a Genova nel 1975 e dal 2013 vive a Tortolì. Ha scritto e pubblicato diversi libri, è co-fondatore e co-curatore del blog letterario Squadernauti. Prepara e corre maratone con grande passione e incrollabile lentezza. Ha raccolto parte delle sue scritture nel sito personale claudiobagnasco.com

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