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Content, l’industria culturale nell’era digitale. La nostra recensione del saggio

Abbiamo letto per voi il libro di Kate Eichhorn

È proprio vero che, quando si è costantemente immersi in qualcosa, non solo quel qualcosa non lo si riesce a definire, ma è difficile anche solo rendersi conto di cosa sia e di quanto sia pervasivo.

Assuefatti come siamo, ormai, alla continua produzione e ricezione di contenuti digitali, quanti di noi si sono soffermati a pensare a cosa siano, oggi, i contenuti? Come siano cambiati, quale sia la loro essenza ai tempi dei chatbot conversazionali?

Al complesso problema dei contenuti proposti in Rete prova a rispondere Kate Eichhorn, con il saggio Content. L’industria culturale nell’era digitale, pubblicato in Italia da Einaudi (giugno 2023, traduzione di Alessandro Manna).

La nostra recensione del saggio Content non può non partire dal problema della definizione di contenuto oggi.

Prima, un doveroso cenno all’autrice.

Content cover

Kate Eichhorn

Kate Eichhorn, leggiamo nella quarta di copertina del libro, insegna Culture and Media Studies alla New School di New York.

Ha scritto The End of Forgetting. Growing Up with Social Media; Adjusted Margin. Xerography, Art, and Activism in the Late Twentieth Century e The Archival Turn in Feminism. Outrage in Order. Per Einaudi ha pubblicato Content. L’industria culturale nell’era digitale (2023).

Che cosa è un contenuto?

Nella prefazione del volume leggiamo che nel 2020, a causa anche del lockdown, l’umanità ha prodotto una mole impressionante di contenuti: 44 zettabyte di dati, ovvero 1.000 byte elevati alla settima. Dieci volte tanto rispetto a ciò che si è prodotto nel 2013.

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Ma cosa è un contenuto oggi? O meglio, cosa è un contenuto digitale? La voce del vocabolario Treccani così recita: “Contenuto informativo di testi o documenti digitali o multimediali.”

Eppure, eccoci al primo ostacolo: l’aggettivo informativo. Per cui, in teoria, ogni contenuto veicola… qualcosa, ha un carattere, appunto, informativo.

È davvero così, anche per i contenuti digitali?

L’uovo di Instagram

Kate Eichhorn, già nelle battute iniziali del libro, cita il famoso uovo di Instagram.

Né più né meno di una fotografia di un uovo che si staglia contro uno sfondo bianco. E che nel 2019 aveva superato i 50 milioni di like. Qual è, in questo caso, il carattere informativo del contenuto? Nessuno, naturalmente. E l’uovo ha continuato a circolare perché l’unico aspetto importante era quello – da parte degli utenti – di partecipare alla sua diffusione.

E va da sé che, prestissimo, si è pensato di rendere remunerativa (estremamente remunerativa) questa pratica della diffusione dei contenuti al solo scopo della diffusione, non per elargire il più possibile l’eventuale carattere informativo del contenuto stesso.

L’industria dei contenuti

Ecco dunque nascere l’industria dei contenuti, “che genera introiti tramite l’esclusiva produzione e/o circolazione di contenuti. In taluni casi, i contenuti in questione trasmettono delle informazioni, raccontano una storia o intrattengono, ma in linea di principio non hanno bisogno di tutto ciò per circolare efficacemente in quanto contenuti (si pensi, ancora una volta, all’uovo di Instagram)”, p. 15.

E subito di seguito, un passaggio ancora più sconcertante: “Solo una parte dei contenuti è prodotta da lavoratori retribuiti: la maggior parte dei contenuti che producono reddito nel settore viene creata gratuitamente dagli utenti”, ibid.

Il contenuto-prodotto

A leggere il saggio Content, viene da pensare che le grandi differenze rispetto al passato (anche recente) sono due.

La prima, lo abbiamo appena letto, è che all’industria dei contenuti partecipano – più o meno volontariamente – anche e soprattutto gli utenti.

La seconda è che, pur non negando che anche in passato i contenuti potevano essere intesi come prodotti, dai quali guadagnare, ora il discorso si fa ben più pervasivo. E in quello che l’autrice chiama “marketing dei contenuti” sembra che non ci sia più alcuna differenza tra contenuto e prodotto.

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Quale soluzione?

Il breve ma denso saggio Content affronta diverse questioni. Dalla degenerazione del giornalismo e del lavoro di redazione (pensiamo non solo alle fake news o al clickbait, ma anche alla quantità degli articoli che si pubblicano, con buona pace della qualità) al ruolo sempre più centrale degli influencer.

Non manca un accenno all’intelligenza artificiale generativa, che possiamo immaginare solo vagamente quale impatto potrà avere nel futuro prossimo.

Ma quindi gli utenti dovrebbero rassegnarsi al ruolo non solo di fruitori passivi del marketing dei contenuti, ma anche a quello di complici loro malgrado?

Non esattamente. Se da un lato occorre che siano le istituzioni a regolamentare i contenuti (e qui Eichhorn ci ricorda che in Europa si è molto più solerti rispetto agli Usa), dall’altro… tocca a noi tutti. E ci fa piacere leggere in Content ciò che anche noi andiamo ripetendo: “Un altro importante sforzo in tal senso potrebbe consistere nell’incrementare l’alfabetizzazione mediatica, che è poi quel che cerca di fare anche questo libro”, p. 108.

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Claudio Bagnasco

Claudio Bagnasco è nato a Genova nel 1975 e dal 2013 vive a Tortolì. Ha scritto e pubblicato diversi libri, è co-fondatore e co-curatore del blog letterario Squadernauti. Prepara e corre maratone con grande passione e incrollabile lentezza. Ha raccolto parte delle sue scritture nel sito personale claudiobagnasco.com

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